(Les amants d’un jour)
Racconto di Adamo Bencivenga


Io pulisco bicchieri, nel retro di un caffè, che poi non è un caffè, ma un albergo a ore, con le stanze al primo piano, per chi vuole far l’amore, o chi stanco dopo un viaggio vuole solo riposare, al riparo sotto un tetto, come adesso che sta piovendo, nel centro di questa città, di fronte alla stazione. Io pulisco bicchieri nel retro di un caffè, che poi non è un caffè, ma un albergo a ore, ed accolgo quelle coppie senza poesia, e quando suonano il campanello fisso sul bancone, asciugo le mie mani e tolgo il grembiule, e senza nessun trasporto cammino lentamente, perché ho i miei anni, perché nulla è mai diverso, e senza guardarli in viso segno i loro nomi, e trattengo i documenti e scrivo data e ora, e consegno una chiave, a caso senza preferenza.
E qui ci lavoro da venti anni o poco meno, porto su il caffè, latte e croissant, e ne ho visti d’innamorati, d’ogni razza e colore, di uomini spavaldi e donne di mestiere, ma anche coppie giovani, timide e discrete, che si avvicinano al bancone, che si tengono per mano, e portano nei vestiti, l’odore dei tigli in fiore, il rumore della pioggia, ma con il sole dentro gli occhi. Chiedono una stanza, mormorando sottovoce, una qualsiasi, senza gradimento, perché non fa differenza, avere la vista sul cortile, oppure sulla strada, oppure la televisione. Vogliono solo un letto, che sia almeno caldo, vogliono solo un tetto, al riparo d’altri occhi, per poi eclissarsi come mai fossero entrati, per poi scomparire nel buio delle scale.
Ma quella mattina è stato tutto diverso, li ho visti arrivare con l’aria spaurita, puliti, educati, sembravano finti, sembravano fossero due angeli biondi, e con un filo di voce m’han chiesto una stanza, e si sono guardati facendosi forza, lui ha sorriso e lei ha risposto, come fossero cuccioli, come fossero bimbi, capitati per caso in un posto per grandi. Gli ho fatto vedere la stanza più grande, la meno schifosa senza carta strappata, ed ho messo nel letto i lenzuoli più nuovi, le federe a fiori e sul comodino una brocca, ed un mazzo di rose con l’acqua più fresca, e la chiave dorata, la numero tre! E quando ho chiuso la porta di quel paradiso, loro m’hanno sorriso accennando ad un inchino, ed ho visto la luce in quegli angeli onesti, come se tutto il sole avesse deciso, di condensare il calore dentro la stanza, sopra quei corpi ancora distanti, ma le anime candide già tanto vicine.
Io lavoro al bar di un albergo a ore, e annoto sempre l’ora perché il prezzo poi cambia, ma erano passate più di sei ore, da quando i ragazzi m’avevan chiesto quella chiave, allora sono salito con il fiato dentro il cuore ed aprendo la porta non credevo ai miei occhi. Sono rimasto là come un cretino, quando li ho visti nudi nel letto, che si tenevano stretti, uniti e tranquilli, e se n’erano andati in silenzio perfetto, lasciando soltanto i due corpi nel letto, e lo sguardo fisso verso altre mattine.
Poi me Ii hanno incartati nei lenzuoli più bianchi, e l’ultimo viaggio l’han fatto da soli, né fiori né gente, soltanto un furgone, ma là dove stanno, staranno benone! Ma sono scoppiato in un pianto a dirotto come la pioggia che cadeva di fuori, come se avessi il peccato e la colpa per averli accolti in quello squallido albergo. Lo so che non c’entro, però non è giusto, morire a vent’anni e poi, proprio qui! Perché io lavoro al bar d’un albergo ad ore, e portò su il caffè a chi fa l’amore, e di certo sarò anche un cretino, ma da quel giorno non ho più dato la chiave del tre!
FINE

Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale
© Adamo Bencivenga – Tutti i diritti riservati
Tutti i racconti sono tutelati dai diritti d’autore.
L’utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso dell’autore